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Chi (non) ce lo fa fare, vittime incoscienti della scrittura minima

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Kakashi
view post Posted on 5/5/2015, 21:21 by: Kakashi
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"Importa forse che sia io ad aver ragione! Io ho troppo ragione. - E chi oggi ride meglio, riderà anche per ultimo."
- F. Nietzsche

Internet ha sdoganato un certo tipo di scrittura. Forse anche più di uno, ma sicuramente quello legato al blogging, micro-blogging e simili, ha avuto e continua ad avere un successo enorme.

Tutti, presto o tardi, hanno avuto un blog o un account Twitter da cui sentenziare le Verità del momento, e tutti, più presto che tardi, hanno passato un periodo di sconforto nei confronti della propria scrittura.
È una fase che capita a tutti, anche più volte in breve tempo, perché in fondo essere soddisfatti della propria scrittura richiede un grande impegno: prima di tutto bisogna essere chiari con se stessi riguardo al livello massimo che si può raggiungere con le parole. Si può provare a scrivere, si può anche riuscire a fare discorsi logici e collegati tra di loro, ma se manca un certo tipo di pathos nella scrittura e nel susseguirsi delle parole, è quasi una scrittura vana.
Però è vana rispetto ad un grande e complessivo scatolone che racchiude in sé le istanze letterarie antiche e contemporanee, ma i blog, e tanto meno le pretese di micro-blogging, non richiedono niente che vada oltre alla comprensione minima (o massima, a seconda del carattere dell'autore) dei limiti personali.
Ovvero, non bisogna essere dei letterati per scrivere un articolo su un blog personale. La cosa si fa diversa per i blog collettivi o con un certo livello di audience, ma a quei livelli sono richieste anche altre capacità, e forse viene messa sull'altare sacrificale proprio l'indissolubile volontà dello scriver bene: sai scrivere? bravo, ma a noi quella capacità interessa davvero poco, è meglio una scrittura aggressiva, piena di metafore risonanti e giochi di parole. Si conquistano così visite e commenti, non certo con affermazioni teoreticamente corroborate da una logica coerente.
La situazione peggiora se si prendono in considerazione i tentativi (mai riusciti) di micro-blogging consapevole, dove si pensa che il limite fisico della scrittura (come Twitter dove ci sono centoquaranta caratteri massimi) sia un punto a favore, quando in realtà capita l'opposto: se c'è una cosa che certi poeti contemporanei (il mistrattato Ungaretti in primis) ci hanno dimostrato è che una poesia essenziale, nella lunghezza, non è necessariamente semplice o banale, ma è anzi la ricerca ossessionata, microscopica, delle parole.
La scrittura non è mai semplice, se la si vuole praticare con un certo riguardo, che siano tre parole o trecento pagine: vale anzi l'opposto, l'essenzialità richiede una cura maggiore.

Pare quasi un obbligo morale dover dira la propria su qualsiasi argomento vada per la maggiore, come se il mondo, o anche solo il vicino di casa, non potesse vivere senza il nostro importante, anzi essenziale, contributo sull'argomento. Non si è ancora capito che il silenzio, applicato con coscienziosa perizia, vale mille parole dette con eruttante follia.
E allora fiumi di parole inondano i nostri schermi, commenti (magari anche sgrammaticati) non richiesti e che avremmo fatto a meno di leggere se non ci fossero capitati davanti agli occhi per colpa di un algoritmo anch'esso poco coscienzioso.
E tutto questo non fa che legittimare ancora una volta quel tipo di scrittura banale che si protrae all'infinito e che sfocia in giudizi approssimativi e senza una base non dico solida, ma neanche liquida.
E appunto la liquidità delle comunicazioni ci investe e ci travolge, e ci fa stare bene essere protetti da un click che esprime gratitudine o da due click che condividono velocemente, come un uragano incessante, le opinioni degli altri.
Il proprio pensiero si annulla in quello dell'altro, il silenzio è riempito dall'incessante fracasso delle macerie della scrittura, quella di sé per prima.

Perché se c'è qualcosa che non si riesce a fare è scrivere su di sé, e non su quello che si è comprato ieri al mercato, ma proprio sul sé come istanza personale, psicologica e sociale.

Rimangono alcune voci fuori dal coro, giustamente poco considerate.
Giustamente perché è chiaro che quando il paradigma della scrittura diventano centoquaranta caratteri, tutto quello che supera i mille è sicuramente inutile e futile: se abbiamo imparato a dire tutto in tre parole, che bisogno c'è di scrivere paginate?
No, davvero: che bisogno c'è?
Sembra nessuno, ma tra un like e un retweet ci potrebbe venire l'idea, malsana e malpagata, di scrivere qualcosa di più. O forse solo di cercare qualcosa di più dagli altri. Ma poi quando lo troviamo come ci dobbiamo comportare?
Perché se ci piace il contenuto e non c'è un tasto per far apparire il proprio gradimento tutto diventa complicato, i neuroni cominciano a lavorare incessantemente per risolvere il problema del secolo. Il Grande Enigma si dispiega davanti ai nostri occhi, ma la soluzione giace lontana nelle lande più disperse di un contiente non ancora scoperto.
Bisognerebbe riuscire ad esprimere il proprio gradimento senza che una funzione lo facesse per noi, ma di certo sembra un'impresa ardua.
Superato lo scoglio più temibile, quello di premere i tasti che ci sono offerti dalla tastiera sotto i nostri occhi, ma ancora prima azionando quei neuroni che compongono il nostro cervello, si riesce anche a scrivere un commento, magari si scopre che in un'epoca non lontana, qualche anno fa, si sarebbe stati bravi giornalisti, o scrittori, o blogger.
Ma lo si può ancora essere, perché in fondo tutto quello esiste ancora, ma ci vuole una volontà di ferro per scoprire quei loculi nascosti nel grande oceano di internet.



Questo articolo è il mio personale rigraziamento a tutti coloro che hanno usato il loro tempo per rispondere ai topic che abbiamo aperto nei mesi scorsi su questo blog, e a tutti quelli che decideranno di continuare a commentare i nostri articoli.
Non c'è chiaramente bisogno di risposte articolate, o di spiegare la propria posizione sull'argomento, perché si può essere d'accordo con l'autore, o magari non si ha niente da dire più di quanto non sia già stato detto, ma far sentire la propria presenza fa sentire gli autori un po' meno soli e sconsolati.

Spero che nessuno si sia arrovellato sulla citazione iniziale, è (non) troppo casuale.
Per la precisione: si tratta della quarantatreesima "sentenza e freccia" dal Crepuscolo degli idoli di Nietzsche, e l'ho messa, principalmente, perché lui era un grande maestro della scrittura densa e ricercata.
 
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20 replies since 5/5/2015, 21:21   482 views
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