| | Negli ultimi mesi ho fatto un cambio di percorso universitario passando dal mondo giuridico a quello medico, e ho avuto modo di riflettere un po' sull'importanza del "conoscere" in sé e per sé, dal punto di vista nozionistico possiamo dire, e sul ruolo delle università e delle varie porte che si sono aperte per chi ha intenzione di studiare un particolare argomento. So che chi segue questo blog frequenta/ha frequentato studi come filosofia o informatica, e che quindi avranno un approccio e delle esperienze presumo diverse dalle mie.
Credo che per far partire un'utile discussione in merito sia importante far capire il mio punto di vista sulla questione. Ho ambito principalmente a due lavori : il magistrato e il medico. Si tratta di due percorsi universitari lunghi, rigidi, nei quali il cambiamento non è ben visto; parlerò del secondo, che nonostante io abbia appena cominciato ho avuto modo di farmene raccontare le sue peculiarità e i suoi principali problemi, e descrive meglio il fulcro del discorso.
Come il classico stile italiano impone, l'approccio è totalmente teorico, il tirocinio ricopre una piccola parte del monte orario, e consiste nel fare veramente poco : si dice che "si reggono i muri". Il problema principale è che ci si trova dal punto di vista pratico, di manualità pura, molto indietro rispetto ai colleghi di altri paesi, persone con cui ho parlato che hanno poi fatto specializzazione all'estero hanno notato, e gli è stata fatta notare, difficoltà che poi sono state recuperate nei mesi successivi. Questo approccio totalmente teorico porta al fatto che la specializzazione è praticamente obbligatoria, un medico neolaureato sa fare (e può legalmente fare) molto poco, da qui nascono le difficoltà a trovare medici da assumere. Negli UK è diverso : un medico senza specializzazione può lavorare con l'NHS, con un contratto da libero professionista, negli ospedali e nei pronto soccorso. Chi preferisce il sistema italiano ti dirà che la parte pratica ci metti pochi mesi a impararla, quella teorica no, e che nel dubbio "ci sono sempre gli infermieri".
Durante una esercitazione ho avuto una chiacchierata con un medico d'emergenza/urgenza del 118 e mi ha raccontato un evento che mi ha fatto particolarmente riflettere : ambulanza, vano sanitario, trasporto in ospedale in codice giallo 2 (non in emergenza), un familiare del paziente a cui era stato consentito entrare in ambulanza con il personale, mentre il medico parlava con i soccorritori e dava indicazioni, lui cercava su google, cercando di non farsi neanche troppo vedere, i termini di cui non conosceva il significato. Da questo fatto ne è partita una conversazione che andava a constatare il fatto che, nella cosiddetta "golden age of content", il ruolo del medico cambia nella misura in cui non è più il suo conoscere in sé e per sé ad attribuire valore alla sua professione; non esiste più il "l'ha detto il medico quindi è così", le persone hanno accesso attraverso internet a un mondo di informazioni incredibile, alcune sbagliando si fanno delle diagnosi da sole o le fanno a parenti, e il medico deve imporre il ruolo della sua professione con qualcosa che vada al di fuori del termine tecnico. Allora ha senso continuare a dire ad un paziente "volume ipertrofico" invece di "più grande"?
Qualche mese fa diversi giornali italiani avevano titolato qualcosa come "L'università di Google rende obsolete quelle tradizionali", ovviamente alcuni giornali non si smentiscono mai con i loro titoli, ma la notizia che le aziende comincino a interessarsi al mondo dell'istruzione non è a mio parere da sottovalutare, qua la notizia viene spiegata meglio. Sicuramente il mondo dell'istruzione superiore "tradizionale" (andiamo a definire con questo termine quello pubblico) ha bisogno, in questo momento, di andarsi a chiedere cosa stanno offrendo oltre le nozioni in sè : un modo di vedere il mondo, di ragionare, di analizzare, di connettere? Nonostante le lauree che hanno uno specifico valore legale a loro collegato, come quelle da me indicate ma ce ne sono molte altre, possano in qualche modo esimersi (e lo fanno molto rapidamente) da questo genere di autocritica, le altre come quelle umanistiche, informatiche etc.. non ne possono, a lungo termine, scamparne. L'Italia, tra le altre cose, è in Europa la penultima per percentuale di giovani laureati, forse anche per il tipo di tessuto produttivo ed economico che caratterizza il nostro paese, forse anche per questa difficoltà, più presente qui che in altri paesi, delle università a innovarsi e a "spiegarsi" ai giovani.
Per riassumere questi quattro paragrafi scarsi : una volta scelto di studiare un particolare argomento, la scelta universitaria è stata dettata più dalla necessità del titolo in sé o era effettivamente lo strumento più utile alla conoscenza? Verso quale direzione cambierà il sistema universitario secondo voi? E se non è stata l'università la vostra scelta, studiare/imparare da soli vi ha reso più preparati? Sicuramente una discussione in merito sarà particolarmente arricchita da chi ha frequentato percorsi come le scienze umane o informatica (ambito da quel che mi sembra di capire particolarmente noto per il "self-made") |
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